10.25
Parcheggiatore abusivo. Un posto improbabile. Ma a quest’ora trovarlo è già un miracolo.
Lascio cadere un euro nella mano del senegalese.
L’odore della porchetta mista all’incenso mi si fa incontro.
Cammino con Gaia per mano, mentre le persone ci strattonano sul viale principale del mercato.
“Rubare le piante porta sfiga”. Iniziamo bene.
Mi avvicino alla bancarella dei fiori e i “sassi viventi” catturano la mia attenzione. Le piante grasse hanno qualcosa di ancestrale, di post-apocalittico, di extraterrestre.
E’ il preistorico che ti viene incontro e ti dice guarda da dove vieni.
“Prendiamo le rose? Queste rosse scuro!”
Poi abbassa la voce e sussura al mio orecchio:
“Si chiama Pampy. Vuole un posto dove sentirsi a casa!”
Gaia è sempre attratta dai fiori. Dice che dietro ogni fiore ci si trova una fata.
Perché non mi lascia il mio pantheon dei sogni? Il mio Marte Apocalittico? Il mio paesaggio lunare dove respirare?
“Dai prendi Pampy, che la portiamo a casa! ”, le dico sorridendo.
Chissà se le piacciono gli scatoloni?
venerdì 25 novembre 2011
Coris
Mi piace quando mi raccontano le fiabe. La mia preferita è quella dell’arcobaleno.
“Tanti e tanti anni fa, prima ancora che le stelle avessero un nome, c’era un regno separato da tutti gli altri paesi. In questo regno, chiamato Isola Eutò, c’erano grandi alberi e numerosi ruscelli, l’oceano lo circondava e al suo centro svettava una rotonda collina. I suoi abitanti vivevano ovunque. Nelle acque, sirene, tritoni e ninfe. In tunnel sotterranei, costruivano le loro case laboriosi gnomi. Al riparo di tronchi e massi, giocavano simpatici folletti. Tra le fronde degli alberi, riposavano le fate. Di giorno tutti si dedicavano alle loro attività, la notte poi, prima di dormire, si ritrovavano attorno ad un fuoco acceso sulla riva. Una notte, mentre salutavano le ultime stelle che apparivano all’orizzonte, il cielo s’illuminò di un lampo dorato. Nessuno ebbe il tempo di capire cosa fosse, e non ci fu bisogno di farlo, perché un attimo dopo una radiosa fenice atterrava in mezzo a loro. Mentre il fuoco faceva risplendere le sue ali, l’uccello narrò la più meravigliosa e curiosa e originale storia. Parlò di buffi esseri che si chiamavano uomini, vivevano in caverne e passavano il tempo viaggiando da una terra ad un’altra, rincorrendo animali con una lancia e imparando l’arte della pittura.
Gli abitanti di Isola Eutò erano da sempre curiosi, e fecero molte domande alla fenice viaggiatrice. Quando ognuna ricevette risposta, i più avventurosi decisero che bisognava andare a conoscere questi uomini. C’era solo un problema. Loro vivevano su un’isola lontana da tutto, talmente lontana che anche i più vigorosi tritoni non sarebbero stati in grado di raggiungere quella terra. Quella notte nessuno dormì. Tutti proponevano soluzioni ma nessuna sembrava andar bene. Giunse infine la prima luce a rischiarare la spiaggia. Fu allora che un giovane folletto, guardandosi attorno, soffermò il suo sguardo sul sentiero che conduceva alla collina. “Dobbiamo costruire una strada”, disse scattando in piedi. “Ma non possiamo costruire una strada sull’acqua”, rispose uno gnomo saggio. “Costruiamo qualcosa per aria” propose una fata. “Creiamo un ponte!”, esclamò una sirena.
Fu così che tutti iniziarono a costruire il più lungo e maestoso ponte mai visto. Era leggero come le gocce di rugiada di cui era fatto, e quando il sole lo illuminava si colorava di sette colori. Lo chiamarono arcobaleno. Fu così che tutti noi siamo giunti qui per la prima volta, e quella è la strada per venire nel nostro mondo.
“Tanti e tanti anni fa, prima ancora che le stelle avessero un nome, c’era un regno separato da tutti gli altri paesi. In questo regno, chiamato Isola Eutò, c’erano grandi alberi e numerosi ruscelli, l’oceano lo circondava e al suo centro svettava una rotonda collina. I suoi abitanti vivevano ovunque. Nelle acque, sirene, tritoni e ninfe. In tunnel sotterranei, costruivano le loro case laboriosi gnomi. Al riparo di tronchi e massi, giocavano simpatici folletti. Tra le fronde degli alberi, riposavano le fate. Di giorno tutti si dedicavano alle loro attività, la notte poi, prima di dormire, si ritrovavano attorno ad un fuoco acceso sulla riva. Una notte, mentre salutavano le ultime stelle che apparivano all’orizzonte, il cielo s’illuminò di un lampo dorato. Nessuno ebbe il tempo di capire cosa fosse, e non ci fu bisogno di farlo, perché un attimo dopo una radiosa fenice atterrava in mezzo a loro. Mentre il fuoco faceva risplendere le sue ali, l’uccello narrò la più meravigliosa e curiosa e originale storia. Parlò di buffi esseri che si chiamavano uomini, vivevano in caverne e passavano il tempo viaggiando da una terra ad un’altra, rincorrendo animali con una lancia e imparando l’arte della pittura.
Gli abitanti di Isola Eutò erano da sempre curiosi, e fecero molte domande alla fenice viaggiatrice. Quando ognuna ricevette risposta, i più avventurosi decisero che bisognava andare a conoscere questi uomini. C’era solo un problema. Loro vivevano su un’isola lontana da tutto, talmente lontana che anche i più vigorosi tritoni non sarebbero stati in grado di raggiungere quella terra. Quella notte nessuno dormì. Tutti proponevano soluzioni ma nessuna sembrava andar bene. Giunse infine la prima luce a rischiarare la spiaggia. Fu allora che un giovane folletto, guardandosi attorno, soffermò il suo sguardo sul sentiero che conduceva alla collina. “Dobbiamo costruire una strada”, disse scattando in piedi. “Ma non possiamo costruire una strada sull’acqua”, rispose uno gnomo saggio. “Costruiamo qualcosa per aria” propose una fata. “Creiamo un ponte!”, esclamò una sirena.
Fu così che tutti iniziarono a costruire il più lungo e maestoso ponte mai visto. Era leggero come le gocce di rugiada di cui era fatto, e quando il sole lo illuminava si colorava di sette colori. Lo chiamarono arcobaleno. Fu così che tutti noi siamo giunti qui per la prima volta, e quella è la strada per venire nel nostro mondo.
giovedì 24 novembre 2011
Valerio
20.46
Voglio annegare nel lavoro stasera, non pensare… ho paura dei miei 30 anni alle porte, ho paura del mio rapporto con Gaia… ho paura di rivedermi la faccia dell’indiano che per poco non ho investito oggi pomeriggio. Paura? Non so se è paura…
“Ascolane all’8!”
…Terrore!
“E’ terrore!”, questo penso mentre metto le olive ascolane al centro di una tavolata di studenti universitari dell’ultimo anno. Passo lo sguardo sulle loro facce… occhiali, riso sguaiato, le sopracciglia da top model, capelli ossigenati, pizzetti… Tra qualche mese saranno facce da disoccupati.
Voglio annegare nel lavoro stasera, non pensare… ho paura dei miei 30 anni alle porte, ho paura del mio rapporto con Gaia… ho paura di rivedermi la faccia dell’indiano che per poco non ho investito oggi pomeriggio. Paura? Non so se è paura…
“Ascolane all’8!”
…Terrore!
“E’ terrore!”, questo penso mentre metto le olive ascolane al centro di una tavolata di studenti universitari dell’ultimo anno. Passo lo sguardo sulle loro facce… occhiali, riso sguaiato, le sopracciglia da top model, capelli ossigenati, pizzetti… Tra qualche mese saranno facce da disoccupati.
mercoledì 23 novembre 2011
Lita
Per me è sempre l’alba... di un giorno, di un anno, di una vita. L' Inizio!
Quell’attimo in cui si passa dal silenzio al suono, quel momento in cui il nero viene
ricoperto di colori, quell’istante in cui il cuore si ferma per un attimo e poi riprende a battere galoppando.
Ogni respiro. Ogni pensiero che si trasforma in parola. Ogni parola che diviene azione. Tutto è inizio.
Inizio è un seme che si sveglia nella terra e sboccia. Inizio è chiudere una valigia e
pensare che quel viaggio ti cambierà per sempre.
Parlo con Gaia: l'inizio per lei è una strada immersa nella notte. L’auto con il serbatoio
pieno e dalla radio una musica allegra. L’asfalto è immerso
nel buio, mentre nel cielo la Grande Stella, illumina.
Fanali accesi, lei parte. Vuole andare lontano, non sa dove, sa solo, che da qualche parte, c’è un
prato in cui fermarsi a giocare con me. Il resto non le importa. Non segue mappe e non segue indicazioni.
Lei va. Corre nella notte senza paura.
Una girandola di possibilità che ruota davanti a lei. Una moltitudine di colori. Un multiplo di inizi. Non coglie singolarmente ogni colore, sa solo che che ce ne sono diversi...
Chissà dove si fermerà!
È così che Gaia descrive l’incertezza. L’incertezza non è ignorare come andranno le cose... E' non
conoscere quale sarà l’ultima carta che si pescherà dal mazzo.
Ma lei ancora non sa che quella carta non sarà mai l'ultima... puoi sempre cominciare una nuova partita. C'è sempre un nuovo inizio.
Valerio
20.46
“…Non lo sopporto più è…”
“…Troppo stupido pensare che potesse…”
“…Cambiare? E secondo te cambio lavoro così? Per finire in un posto peggiore magari e poi…”
“…Manca ancora una giornata a fine campionato e tutto è…”
“…Possibile? Ogni volta che si esce è la stessa storia? Pago io o paghi tu!”
Le voci dei clienti catturate mentre passo velocemente con una pila di piatti sporchi e avanzi di cibo.
E’ strano come le frasi estrapolate da un contesto e collegate a un altro possano assumere un significato diverso.
E’ un collage di pensieri, di sensazioni, di esperienze… E’ vita!
“…Non lo sopporto più è…”
“…Troppo stupido pensare che potesse…”
“…Cambiare? E secondo te cambio lavoro così? Per finire in un posto peggiore magari e poi…”
“…Manca ancora una giornata a fine campionato e tutto è…”
“…Possibile? Ogni volta che si esce è la stessa storia? Pago io o paghi tu!”
Le voci dei clienti catturate mentre passo velocemente con una pila di piatti sporchi e avanzi di cibo.
E’ strano come le frasi estrapolate da un contesto e collegate a un altro possano assumere un significato diverso.
E’ un collage di pensieri, di sensazioni, di esperienze… E’ vita!
sabato 19 novembre 2011
Valerio: incontri 2
I palazzi umbertini. Platani, cedri del libano, palme. “I trofei di Mario”. Una fontana, su più livelli, quasi un colosso, domina dal centro il giardino di Piazza Vittorio. Un’opera quasi “americana” per la sua imponenza. Ma i romani erano gli americani dell’epoca.
A Gaia questa piazza piace. Qui c’è la “Porta Magica”. Lei conosce tutta la leggenda e ha tentato di spiegarmela non so più quante volte, ma io continuo a dimenticarmela sempre. A me piace solo il triangolo con l’occhio, mi ricorda tanto quello che c’è sui dollari americani.
I portici e il melting pot di facce di ogni colore. Di culture che si incontrano, si scontrano a volte, ma sopravvivono in una piazza. I negozi di abbigliamento cinesi. La bigiotteria indiana. Gli alimentari multietnici in cui comprare dal dolmas all’adzuki, dai noodles al dulche de leche. Farine, risi, te. Spezie. Mi fermo sulla porta di uno di questi drugstore, osservo le facce, ne cerco una in particolare. Anche se sarebbe assurdo incontrarlo qui, nel primo negozio in cui mi fermo. E infatti lui non c’è. L’uomo che ho quasi investito non è tra i clienti del negozio. Proseguo per le strade del quartiere e intanto cerco di ricordare ogni tratto di quel viso che mi è stato davanti per pochi secondi. Sono circa quaranta minuti che giro intorno a quell’incrocio, ma non ci vado. Ho paura che sia lì. Ho paura di incontrare i suoi. E poi che gli dico? Sono il tuo quasi assassino?
A Gaia questa piazza piace. Qui c’è la “Porta Magica”. Lei conosce tutta la leggenda e ha tentato di spiegarmela non so più quante volte, ma io continuo a dimenticarmela sempre. A me piace solo il triangolo con l’occhio, mi ricorda tanto quello che c’è sui dollari americani.
I portici e il melting pot di facce di ogni colore. Di culture che si incontrano, si scontrano a volte, ma sopravvivono in una piazza. I negozi di abbigliamento cinesi. La bigiotteria indiana. Gli alimentari multietnici in cui comprare dal dolmas all’adzuki, dai noodles al dulche de leche. Farine, risi, te. Spezie. Mi fermo sulla porta di uno di questi drugstore, osservo le facce, ne cerco una in particolare. Anche se sarebbe assurdo incontrarlo qui, nel primo negozio in cui mi fermo. E infatti lui non c’è. L’uomo che ho quasi investito non è tra i clienti del negozio. Proseguo per le strade del quartiere e intanto cerco di ricordare ogni tratto di quel viso che mi è stato davanti per pochi secondi. Sono circa quaranta minuti che giro intorno a quell’incrocio, ma non ci vado. Ho paura che sia lì. Ho paura di incontrare i suoi. E poi che gli dico? Sono il tuo quasi assassino?
venerdì 18 novembre 2011
Pampy
Nessuna fata è instancabile come me. Di giorno salto di fiore in fiore ad ascoltare le parole della gente. La notte poi salgo verso il cielo più lontano.
Sono piccolina ma le mie ali sono forti.
A me vengono affidati i desideri di felicità. Io li avvolgo in piccoli cofanetti, li stringo tra le mani e poi volo verso il cielo. Là, tra le stelle, li lascio liberi. E loro volano, fanno capriole e volteggiano. Poi si fermano su una stella a riposare e ne assorbono la luce. Quando finalmente sono essi stessi luce si tuffano, per raggiungere il punto da cui sono partiti.
Io sono il tramite per il quale i desideri da parola diventano realtà.
Quando vedi una coccinella la prossima volta pensaci. Domandati qual è il tuo desiderio più grande e confidaglielo. Io sarò là vicina, e ti sentirò. Tu apri solo il tuo cuore, del resto me ne incarico io.
Gaia lo sa bene. Ci siamo conosciute un giorno mentre lei se ne stava stesa sull’erba ad osservare il cielo. Io cantavo ai primi fiori primaverili che coloravano i colli. L’ultimo bocciolo si era schiuso ed io mi stavo allontanando quando mi giunse la sua voce.
“Voglio un posto dove sentirmi a casa come mi sento qui.”
Questa la frase che mi colpì.
Dico sempre che i desideri da esprimere devono essere desideri importanti, o non ha senso. È come con i sogni. Se si sogna si deve farlo in grande, i sogni piccoli ognuno può realizzarli con le sue sole forze.
Un altro segreto che Gaia conosce è come desiderare. Lei non si lamenta, non piagnucola di bisogni. Lei afferma quello che vuole, decisa. Poi si muove in quella direzione. Per questo è una gioia per me aiutarla. Lei è certa che otterrà, ed io l’aiuto nella sua strada.
Questo è il segreto dei desideri. Aspettarsi che s’avverino.
Valerio: incontri
16.53
Angolo di strada quartiere Esquilino. Roma. Sapone, acqua e la spugna che scorre avanti e indietro sul vetro. Il dito di una signora che si agita all’interno dell’abitacolo.
A volte succede che ti fissi a guardare delle azioni e perdi di vista anche il protagonista che le compie. Ecco io me ne sto qui a guardare la scena, mentre ho ancora in bocca il sapore del pollo in salsa agrodolce.
Semaforo verde. Ancora soprapensiero parto, ma inchiodo appena mosso. Un movimento impercettibile e un riflesso incondizionato che mi porta a frenare. I miei occhi hanno per un frammento di secondo registrato un movimento di piedi davanti alle ruote del mio scooter. Sento l’urto. Leggero, impercettibile quasi. Ma è un urto di qualcosa di metallico su qualcosa di umano, di vivo, di fragile di fronte alla potenza del mio motorino.
“Cazzo!” e mentre lo pronuncio alzo la testa e mi ritrovo di fronte il volto di un indiano che si scusa e rapidamente finisce l’attraversamento.
Resto ipnotizzato alcuni secondi a seguire i suoi movimenti.
Fin quando non sono sicuro che non gli ho fatto male. Fin quando non lo vedo raggiungere il marciapiede. Fin quando l’auto dietro di me non suona il clacson.
Angolo di strada quartiere Esquilino. Roma. Sapone, acqua e la spugna che scorre avanti e indietro sul vetro. Il dito di una signora che si agita all’interno dell’abitacolo.
A volte succede che ti fissi a guardare delle azioni e perdi di vista anche il protagonista che le compie. Ecco io me ne sto qui a guardare la scena, mentre ho ancora in bocca il sapore del pollo in salsa agrodolce.
Semaforo verde. Ancora soprapensiero parto, ma inchiodo appena mosso. Un movimento impercettibile e un riflesso incondizionato che mi porta a frenare. I miei occhi hanno per un frammento di secondo registrato un movimento di piedi davanti alle ruote del mio scooter. Sento l’urto. Leggero, impercettibile quasi. Ma è un urto di qualcosa di metallico su qualcosa di umano, di vivo, di fragile di fronte alla potenza del mio motorino.
“Cazzo!” e mentre lo pronuncio alzo la testa e mi ritrovo di fronte il volto di un indiano che si scusa e rapidamente finisce l’attraversamento.
Resto ipnotizzato alcuni secondi a seguire i suoi movimenti.
Fin quando non sono sicuro che non gli ho fatto male. Fin quando non lo vedo raggiungere il marciapiede. Fin quando l’auto dietro di me non suona il clacson.
Pampy
Nessuna fata è instancabile come me. Di giorno salto di fiore in fiore ad ascoltare le parole della gente. La notte poi salgo verso il cielo più lontano.
Sono piccolina ma le mie ali sono forti.
A me vengono affidati i desideri di felicità. Io li avvolgo in piccoli cofanetti, li stringo tra le mani e poi volo verso il cielo. Là, tra le stelle, li lascio liberi. E loro volano, fanno capriole e volteggiano. Poi si fermano su una stella a riposare e ne assorbono la luce. Quando finalmente sono essi stessi luce si tuffano, per raggiungere il punto da cui sono partiti.
Io sono il tramite per il quale i desideri da parola diventano realtà.
Quando vedi una coccinella la prossima volta pensaci. Domandati qual è il tuo desiderio più grande e confidaglielo. Io sarò là vicina, e ti sentirò. Tu apri solo il tuo cuore, del resto me ne incarico io.
Gaia lo sa bene. Ci siamo conosciute un giorno mentre lei se ne stava stesa sull’erba ad osservare il cielo. Io cantavo ai primi fiori primaverili che coloravano i colli. L’ultimo bocciolo si era schiuso ed io mi stavo allontanando quando mi giunse la sua voce.
“Voglio un posto dove sentirmi a casa come mi sento qui.”
Questa la frase che mi colpì.
Dico sempre che i desideri da esprimere devono essere desideri importanti, o non ha senso. È come con i sogni. Se si sogna si deve farlo in grande, i sogni piccoli ognuno può realizzarli con le sue sole forze.
Un altro segreto che Gaia conosce è come desiderare. Lei non si lamenta, non piagnucola di bisogni. Lei afferma quello che vuole, decisa. Poi si muove in quella direzione. Per questo è una gioia per me aiutarla. Lei è certa che otterrà, ed io l’aiuto nella sua strada.
Questo è il segreto dei desideri. Aspettarsi che s’avverino.
mercoledì 16 novembre 2011
Gaia: al via
I compleanni non hanno né magia né poteri particolari. Neanche quando arrivi ai trenta. Il 12 febbraio mi sono alzata ed era tutto esattamente come la sera prima. Io ero identica a quella che ero quando sono andata a dormire. E per tutto il giorno non è successo nulla di eclatante. Una domenica come tutte le altre, non fosse stato per il cellulare che richiedeva la mia attenzione più del solito.
Ma puoi fare un bilancio di come hai vissuto in base a quanti messaggi ricevi? Sarebbe come dire che se festeggi San Valentino in coppia sai amare altrimenti no. Come dire che se qualcuno ti regala un mazzo di mimose l’8 marzo sei una donna altrimenti no.
È stato solo un giorno come tanti, solo che magari ho sentito un po’ la nostalgia per la mia infanzia. Ma forse è dipeso dal fatto di sentire vecchi amici e rendermi conto che nelle loro vite ormai sono solo un ricordo.
Del resto cosa mi potevo aspettare? Ho imparato che il giorno perfetto per cambiare la propria vita è qualsiasi giorno.
Ecco, questa è un’altra verità, i cambiamenti non ti cadono addosso, li provochi.
Di cambiamenti ora non ne ho voglia. Che c’è di male se la mia vita mi piace?
Dublino
19.35
Crocchette al 6.
La coppia di amanti clandestini che il sabato arriva sempre alle 19.10.
Di solito è lui il primo ad arrivare ordina due crocchette e dopo dieci minuti arriva anche lei. Si siedono come se fossero colleghi di lavoro. Forse lo sono. Parlano a bassa voce.
Ordinano birra chiara alla spina.
A me piace spillare la birra. Vedere il bicchiere inclinato che si riempie e la schiuma che si forma. La stessa che scendeva nei calici a Dublino.
Le mie serate nei pub irlandesi. Erica. I miei 23 anni.
"In Westland row si fermò davanti alla vetrina della Belfast and Oriental Tea Company e lesse l'etichetta dei pacchetti di stagnola: miscela scelta, qualità sopraffina, miscela per famiglie. Piuttosto caldo. Tè."
Ecco per me Dublino è sempre stata quest'immagine. Mr Bloom che cammina nell'Ulysse di Joyce. Erica era la mia Molly.
Un pub con musica irlandese. Una ballata. Lei seduta al tavolo d'angolo con altri tre ragazzi. I bicchieri di birra finiti. Questa è la prima immagine di Erica. Capelli rossi e un faccino da irlandese. Io e Fabio ci sedemmo a un tavolo lì vicino, ordinammo Guiness e cercammo di darci un tono. Di non sembrare i soliti turisti sprovveduti. Di non sembrare italiani.
Fu Erica a quel punto a sorridermi. Non ci credevo. Avevo fatto colpo su un'irlandese! Poi si avvicinò al tavolo e mi chiese se potevo offrirle una birra. Io le avrei offerto tutta la birra di Dublino quella sera.
Si sedette al tavolo, arrivò la birra. Scoprii che era di Torino e sorrisi.
Margherita e Funghi al 6.
Ora si sorridono. Diventano più visibili le rughe intorno alla bocca di lei.
Metto le pizze davanti a loro. E mi sento di interrompere quell'intimità. Infatti cambiano espressione entrambi. Diventano neutri. Algidi.
E se tra vent'anni fossi io seduto al posto dell'uomo dai capelli brizzolati? Se fossi io a dover celare un'emozione anche davanti a un cameriere? Se fossi io a dover parlare a bassa voce, solo per paura che qualcuno in un locale possa riconoscermi?
Chissà se quando mia madre ha divorziato da mio padre lo aveva trovato insieme a una donna così. Chissà com'era l'amante di mio padre. Chissà se le sorrideva così.
Erica mi sorrise così a Grafton Street. Gli artisti di strada suonavano i Beatles o "Another girl" risuonava nei loro strumenti. Io non ho capito mai fin dove un musicista interpreta una musica o è la musica a lasciarsi plasmare da un musicista.
Poi arrivò un temporale. Uno di quelli tipici irlandesi. Con la pioggia fine e persistente. Uno di quei temporali che nei boschi irlandesi, secondo Gaia, fa danzare le fatine sotto la pioggia e fa riparare i folletti sotto i funghi. Noi ci riparammo in un pub. Bevemmo due birre a testa. Smise la pioggia e chiedemmo il conto.
Conto al 6.
Crocchette al 6.
La coppia di amanti clandestini che il sabato arriva sempre alle 19.10.
Di solito è lui il primo ad arrivare ordina due crocchette e dopo dieci minuti arriva anche lei. Si siedono come se fossero colleghi di lavoro. Forse lo sono. Parlano a bassa voce.
Ordinano birra chiara alla spina.
A me piace spillare la birra. Vedere il bicchiere inclinato che si riempie e la schiuma che si forma. La stessa che scendeva nei calici a Dublino.
Le mie serate nei pub irlandesi. Erica. I miei 23 anni.
"In Westland row si fermò davanti alla vetrina della Belfast and Oriental Tea Company e lesse l'etichetta dei pacchetti di stagnola: miscela scelta, qualità sopraffina, miscela per famiglie. Piuttosto caldo. Tè."
Ecco per me Dublino è sempre stata quest'immagine. Mr Bloom che cammina nell'Ulysse di Joyce. Erica era la mia Molly.
Un pub con musica irlandese. Una ballata. Lei seduta al tavolo d'angolo con altri tre ragazzi. I bicchieri di birra finiti. Questa è la prima immagine di Erica. Capelli rossi e un faccino da irlandese. Io e Fabio ci sedemmo a un tavolo lì vicino, ordinammo Guiness e cercammo di darci un tono. Di non sembrare i soliti turisti sprovveduti. Di non sembrare italiani.
Fu Erica a quel punto a sorridermi. Non ci credevo. Avevo fatto colpo su un'irlandese! Poi si avvicinò al tavolo e mi chiese se potevo offrirle una birra. Io le avrei offerto tutta la birra di Dublino quella sera.
Si sedette al tavolo, arrivò la birra. Scoprii che era di Torino e sorrisi.
Margherita e Funghi al 6.
Ora si sorridono. Diventano più visibili le rughe intorno alla bocca di lei.
Metto le pizze davanti a loro. E mi sento di interrompere quell'intimità. Infatti cambiano espressione entrambi. Diventano neutri. Algidi.
E se tra vent'anni fossi io seduto al posto dell'uomo dai capelli brizzolati? Se fossi io a dover celare un'emozione anche davanti a un cameriere? Se fossi io a dover parlare a bassa voce, solo per paura che qualcuno in un locale possa riconoscermi?
Chissà se quando mia madre ha divorziato da mio padre lo aveva trovato insieme a una donna così. Chissà com'era l'amante di mio padre. Chissà se le sorrideva così.
Erica mi sorrise così a Grafton Street. Gli artisti di strada suonavano i Beatles o "Another girl" risuonava nei loro strumenti. Io non ho capito mai fin dove un musicista interpreta una musica o è la musica a lasciarsi plasmare da un musicista.
Poi arrivò un temporale. Uno di quelli tipici irlandesi. Con la pioggia fine e persistente. Uno di quei temporali che nei boschi irlandesi, secondo Gaia, fa danzare le fatine sotto la pioggia e fa riparare i folletti sotto i funghi. Noi ci riparammo in un pub. Bevemmo due birre a testa. Smise la pioggia e chiedemmo il conto.
Conto al 6.
Nanà
Bianca e lieve, come l’ultima nevicata dell’inverno.
Bianca e forte, come i fiori che bucano l’ultimo strato di neve.
Bianca e libera, come la spuma di un’onda che sceglie dove infrangersi.
Così sono io.
I colori sono ancora solo una promessa. I suoni aspettano di tornare a far sentire la loro voce dopo il silenzio ovattato dei mesi più freddi. La costellazione dell’acquario governa il cielo. Io danzo.
Danzavo mentre Gaia per la prima volta conosceva il calore di un abbraccio, e danzavo mentre cercava cambiamenti nello specchio il giorno del suo trentesimo compleanno.
Danzo perché nel muoversi non ci sono vincoli, così come non ce ne sono a febbraio. Danzo perché onoro il divenire ed il cambiamento.
Amo quel momento di passaggio in cui niente è ancora certo, in cui non si prendono decisioni ma si lascia che sia.
Amo quando il cambiamento è in essere ma non è avvenuto.
Per questo danzo.
Gaia la chiama vita.
Io osservo lo scorrere delle stagioni, mi baso sul tempo, attendo i momenti di passaggio. Lei non fa distinzioni, non importa il giorno, quando è pronta va.
Non legatela al tempo, perché è una dimensione che non le appartiene. L’unico tempo che percepisce è il tempo interiore. Quando è maturo, lei agisce. Quando è maturo, lei apre gli occhi e vede.
È questo il motivo per il quale danza ogni giorno, lo fa per il mutamento che le scorre dentro, lo asseconda anche quando esternamente la sua vita appare scorrere immutata e immutabile.
Io, Nanà, la osservo e, mentre danzo, aspetto il suo prossimo cambiamento.
Bianca e forte, come i fiori che bucano l’ultimo strato di neve.
Bianca e libera, come la spuma di un’onda che sceglie dove infrangersi.
Così sono io.
I colori sono ancora solo una promessa. I suoni aspettano di tornare a far sentire la loro voce dopo il silenzio ovattato dei mesi più freddi. La costellazione dell’acquario governa il cielo. Io danzo.
Danzavo mentre Gaia per la prima volta conosceva il calore di un abbraccio, e danzavo mentre cercava cambiamenti nello specchio il giorno del suo trentesimo compleanno.
Danzo perché nel muoversi non ci sono vincoli, così come non ce ne sono a febbraio. Danzo perché onoro il divenire ed il cambiamento.
Amo quel momento di passaggio in cui niente è ancora certo, in cui non si prendono decisioni ma si lascia che sia.
Amo quando il cambiamento è in essere ma non è avvenuto.
Per questo danzo.
Gaia la chiama vita.
Io osservo lo scorrere delle stagioni, mi baso sul tempo, attendo i momenti di passaggio. Lei non fa distinzioni, non importa il giorno, quando è pronta va.
Non legatela al tempo, perché è una dimensione che non le appartiene. L’unico tempo che percepisce è il tempo interiore. Quando è maturo, lei agisce. Quando è maturo, lei apre gli occhi e vede.
È questo il motivo per il quale danza ogni giorno, lo fa per il mutamento che le scorre dentro, lo asseconda anche quando esternamente la sua vita appare scorrere immutata e immutabile.
Io, Nanà, la osservo e, mentre danzo, aspetto il suo prossimo cambiamento.
domenica 13 novembre 2011
New York
Non era il mio letto. Non era la mia stanza. Non era la mia città. Ma questo lo realizzai in ritardo rispetto al mio risveglio.
Mi succede spesso quando arrivo di notte in una città. E’ tutto avvolto nel buio e quello che percepisco è solo una diversa disposizione dei palazzi, delle strade e delle insegne stradali.
La carta da parati celeste mi aveva abbagliato appena aperti gli occhi, poi era seguita la consapevolezza del lenzuolo, cotone bianco usurato dai continui lavaggi. Non era il massimo come prima immagine, ma ero felice lo stesso: ero a New York.
Mi affacciai alla finestra. Ero troppo curioso di guardare fuori: squallido cortile buio. E fu allora che mi apparve l’obelisco di Piazza San Giovanni in Laterano. Quell’obelisco che guardavo ogni mattina prima di andare a scuola dalla finestra della mia casa.
Era la mia “spada nella piazza”, il centro di equilibrio in uno spazio, era il mio sogno infantile di salire fino al cielo e da lì spiccare il volo con gli stormi di rondini che migravano d’inverno verso l’Africa.
Central Park. Obelisco di Thutmose III. L’Ago di Cleopatra, il gemello di quello di Victoria Embankment a Londra.
Through the rain nelle mie orecchie e il Great Lawn sotto i piedi. Ecco “vorrei essere colto di sorpresa dalla pioggia” proprio come nella canzone di Mariah Carey.
Una pioggia fitta, con gocce grandi. Mi piacerebbe vederlo così lo Swedish Cottage. Vorrei sentire i tuoni in lontananza mentre arrivo a Straberry Fields. Vorrei un tuono che irrompesse, come uno sparo. Come quel proiettile del 1980.
C’è il sole invece, un maledetto sole di luglio. C’è l’afa di New York, c’è il silenzio di un lunedì mattina, C’è il mio respiro che si blocca quando i miei occhi mettono a fuoco “Imagine”.
Silenzio, come se qualcuno avesse spento il volume a tutto il parco, a tutta New York.
“Imagine” si appanna. Sto piangendo.
sabato 12 novembre 2011
Paco presenta Valerio
Chi è Valerio? Un amico!
Ci siamo incontrati in 4° ginnasio. Sezione C.
Io Pasquale Rinaldi detto “Paco”, lui Valerio Sallusti detto “Mo’ arrivo”.
Valerio era quello distratto, quello disordinato, quello perennemente in ritardo.
A lui piaceva filosofia e geografia. Anche se la sua lezione preferita era educazione fisica. Non perché fosse sportivo ma perché gli piaceva vedere le ragazze muoversi. Era capace di restare con lo sguardo fisso su una ragazza per l’intera ora. Scomparivano il professore, scomparivano i compagni di classe, scompariva l’intera palestra e lui entrava nel suo mondo. Io lo capivo perchè anch’io avevo il mio mondo: i miei computer!
Non capisco invece la convivenza con Gaia, ma non per lei. Non capisco la fretta di crescere di Valerio. La voglia di “sistemarsi” è una fuga. Fuga dalla sua vita, dai suoi sogni, da se stesso.
Cosa gli piace?
Viaggiare, scoprire, fotografare.
Che musica ascolta?
Sente cose strane. Eterogenee. Odia l’unica musica che a me piace: quella elettronica!
L’immagine che ho di lui?
Questa!
Valerio: voglia di eventi
18 giugno 1982.
Il giorno in cui ritrovarono Calvi al Blackfriars Bridge. Il giorno della mia nascita.
E quando ho compiuto un anno Sally Ride diventava la prima donna americana ad andare nello spazio.
Il 18 giugno ma del 1997 Michael Jackson tenne il suo ultimo concerto in Italia allo stadio San Siro di Milano.
Un giorno denso di eventi. E sono proprio gli eventi invece a mancare nella mia vita.
C’è lo scorrere lento di un’esistenza. Quella lentezza che caratterizza da sempre la mia generazione. Una lentezza non voluta ma imposta da un mondo che scorre veloce e non lascia spazio a nessuno. A nessuno che non sia già qualcuno. Qualcuno perché i suoi genitori erano già qualcuno, qualcuno perché conosci chi è già qualcuno, qualcuno perché sei stato nel posto giusto al momento giusto. Ecco io non sono qualcuno. E come tutti i nessuno ho la paura di non arrivare in tempo a fare tutte le tappe della mia vita. E oggi ho realizzato che ho 30 giorni per creare un evento. Trenta giorni ai miei trent’anni.
venerdì 11 novembre 2011
Gemma
Vai oltre.
Non fermarti al mio faccino pulito, all’aria un po’ imbronciata ed agli occhioni sognanti.
Vai oltre.
Vai oltre quello che pensi di me la prima volta che mi vedi.
Io sono Gemma.
Appaio dopo che hai gettato la superficie. Vai oltre?
Si dice che quando gli uomini vivevano di carne animale una famiglia di fate varcò la soglia che separa i nostri regni. Vestite di verde, capelli color legno, ali oro brillante. Queste erano le fate. Scelsero un albero, collegamento tra terra e cielo. Vi danzarono, cantarono e risalirono l'albero fino alla cima per ammirare il sole. Fu la prima volta che gli uomini prestarono attenzione a tutto ciò che produceva la terra.
Si chiama crescita.
Io discendo da quella famiglia, gli Elesi, e son giunta qui per Gaia, per invitarla con le mie danze a crescere con me.
Vai oltre.
Non fermarti al suo aspetto di giovane donna entusiasta di un nuovo amore. Non prestare troppa attenzione ai fiumi di parole che pronuncia appena una nuova idea le arriva tra i pensieri. Concentrati piuttosto sui suoi silenzi, perché là si nasconde il germe di ciò che sarà. Osservala mentre cammina in un parco e capirai. Guardale gli occhi e vedrai il suo mondo. Nelle parole che non pronuncia c’è il suo desiderio di nuove scoperte e la voglia di solcare nuovi territori. Nelle sue certezze, la paura per l’ignoto e l’ancora per rimanere in un posto sicuro perché conosciuto.
Ora lo sai.
Vai oltre!
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