I palazzi umbertini. Platani, cedri del libano, palme. “I trofei di Mario”. Una fontana, su più livelli, quasi un colosso, domina dal centro il giardino di Piazza Vittorio. Un’opera quasi “americana” per la sua imponenza. Ma i romani erano gli americani dell’epoca.
A Gaia questa piazza piace. Qui c’è la “Porta Magica”. Lei conosce tutta la leggenda e ha tentato di spiegarmela non so più quante volte, ma io continuo a dimenticarmela sempre. A me piace solo il triangolo con l’occhio, mi ricorda tanto quello che c’è sui dollari americani.
I portici e il melting pot di facce di ogni colore. Di culture che si incontrano, si scontrano a volte, ma sopravvivono in una piazza. I negozi di abbigliamento cinesi. La bigiotteria indiana. Gli alimentari multietnici in cui comprare dal dolmas all’adzuki, dai noodles al dulche de leche. Farine, risi, te. Spezie. Mi fermo sulla porta di uno di questi drugstore, osservo le facce, ne cerco una in particolare. Anche se sarebbe assurdo incontrarlo qui, nel primo negozio in cui mi fermo. E infatti lui non c’è. L’uomo che ho quasi investito non è tra i clienti del negozio. Proseguo per le strade del quartiere e intanto cerco di ricordare ogni tratto di quel viso che mi è stato davanti per pochi secondi. Sono circa quaranta minuti che giro intorno a quell’incrocio, ma non ci vado. Ho paura che sia lì. Ho paura di incontrare i suoi. E poi che gli dico? Sono il tuo quasi assassino?
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