Non era il mio letto. Non era la mia stanza. Non era la mia città. Ma questo lo realizzai in ritardo rispetto al mio risveglio.
Mi succede spesso quando arrivo di notte in una città. E’ tutto avvolto nel buio e quello che percepisco è solo una diversa disposizione dei palazzi, delle strade e delle insegne stradali.
La carta da parati celeste mi aveva abbagliato appena aperti gli occhi, poi era seguita la consapevolezza del lenzuolo, cotone bianco usurato dai continui lavaggi. Non era il massimo come prima immagine, ma ero felice lo stesso: ero a New York.
Mi affacciai alla finestra. Ero troppo curioso di guardare fuori: squallido cortile buio. E fu allora che mi apparve l’obelisco di Piazza San Giovanni in Laterano. Quell’obelisco che guardavo ogni mattina prima di andare a scuola dalla finestra della mia casa.
Era la mia “spada nella piazza”, il centro di equilibrio in uno spazio, era il mio sogno infantile di salire fino al cielo e da lì spiccare il volo con gli stormi di rondini che migravano d’inverno verso l’Africa.
Central Park. Obelisco di Thutmose III. L’Ago di Cleopatra, il gemello di quello di Victoria Embankment a Londra.
Through the rain nelle mie orecchie e il Great Lawn sotto i piedi. Ecco “vorrei essere colto di sorpresa dalla pioggia” proprio come nella canzone di Mariah Carey.
Una pioggia fitta, con gocce grandi. Mi piacerebbe vederlo così lo Swedish Cottage. Vorrei sentire i tuoni in lontananza mentre arrivo a Straberry Fields. Vorrei un tuono che irrompesse, come uno sparo. Come quel proiettile del 1980.
C’è il sole invece, un maledetto sole di luglio. C’è l’afa di New York, c’è il silenzio di un lunedì mattina, C’è il mio respiro che si blocca quando i miei occhi mettono a fuoco “Imagine”.
Silenzio, come se qualcuno avesse spento il volume a tutto il parco, a tutta New York.
“Imagine” si appanna. Sto piangendo.
Bellissimo
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